Racconti - Tommaso Patella

Vai ai contenuti

Menu principale:

Racconti

Arti Orientali > Aikido

L’essenza dell’ Aikido  di Terry Dobson

Il Treno sferragliava e sbatteva attraverso i sobborghi di Tokio, in un pomeriggio sonnolento di primavera. Il nostro scompartimento era relativamente vuoto, alcune massaie con i bambini alle caviglie, vecchi che andavano a fare la spesa. Io osservavo in maniera distratta le case squallide e le siepi polverose. Ad una stazione le porte si aprirono e improvvisamente la quiete del pomeriggio fu spezzata dalla voce di un uomo che urlava violente, incomprensibili bestemmie. L’ uomo salì oscillando nella nostra macchina. Indossava abiti da operaio. Era grosso, sporco, ubriaco. Gridando tentennò verso una donna che teneva un bambino. Il colpo lo fece roteare sulle ginocchia di una coppia di anziani. Il bambino non si fece male solo per miracolo. La coppia terrorizzata saltò su e si fece strada verso l’altra estremità dello scompartimento. L’ operaio prese di mira con un calcio il posteriore della vecchia che si allontanava, ma la mancò mentre quella si metteva sgattaiolando in salvo. Ciò mise talmente in collera l’ubriaco, che afferrò la sbarra di metallo al centro dello scompartimento e cercò di strapparla dal suo sostegno. Mi accorsi che aveva una mano ferita e sanguinante. Il treno balzava avanti, con i passeggeri gelati dalla paura. Mi alzai. Ero giovane allora (circa 20 anni) e abbastanza in forma. Quasi ogni giorno avevo dedicato otto ore intere ad allenarmi nell’ Aikido, per tre anni. Mi piaceva lanciare ed agganciare. Pensavo di essere duro, il guaio era che la mia abilità non aveva trovato modo fi provarsi nella lotta. Come studenti di Aikido non potevamo combattere. L’ Aikido, ripeteva sempre il mio maestro, è l’ arte della riconciliazione. Chiunque ha intenzione di combattere rompe il suo rapporto con l’ universo. Se cerchi di dominare la gente sei già sconfitto. Noi studiamo per risolvere i conflitti, non per farli nascere, diceva il mio maestro. Io lo ascoltavo. Facevo tutto il mio meglio. Arrivavo al punto di attraversare la strada per evitare i chimperra, i fannulloni punk che indugiavano intorno alla stazione ferroviaria. La mia astensione mi faceva esultare. Mi sentivo forte, e santo ad un tempo. Però in cuor mio avevo bisogno di un’occasione del tutto legittima nella quale avrei potuto salvare l’innocente e distruggere il colpevole.
“Eccola qui!” dissi a me stesso alzandomi in piedi. La gente è in pericolo. Se non faccio qualcosa subito qualcuno probabilmente avrà dei guai. Nel vedere che mi alzavo, l’ ubriaco trovò l’ occasione di concentrare la sua rabbia su di un punto.
“Ah ah” egli ruggì. “Straniero, hai bisogno di una lezione di comportamento alla giapponese!” Io mi tenevo leggermente alla maniglia dei viaggiatori e gli diedi una lenta occhiata di disgusto e di disprezzo. Avevo deciso di stendere quel “fetente”, ma era lui che doveva fare la prima mossa. Volevo che andasse su tutte le furie, così arrotondai le labbra e gli inviai insolentemente un bacio.
“Va bene” egli tuonò, “avrai la tua lezione”. Si raccolse per poi corrermi addosso. Mezzo secondo prima che si muovesse, qualcuno gridò “Hei!”. Era un suono da spaccare le orecchie. Mi ricordava la caratteristica strana felice qualità di quel grido, come se tu e un tuo amico aveste diligentemente cercato qualcosa e lui all'’ improvviso ci si fosse imbattuto. “Hei!” Girai a  sinistra. L’ ubriaco ruotò a  destra. Entrambi guardavamo in giù verso un piccolo giapponese. Doveva avere 70 anni abbondanti, questo minuscolo gentiluomo, seduto lì immacolato nel suo kimono. Non si curò di me, ma sorrideva rapito all’ operaio, come se dovesse farlo partecipe di un importantissimo e grato segreto. “Vieni qui!” disse il vecchietto all’ubriaco in una facile lingua dialettale. “Vieni qui a parlare con me” e fece un lieve cenno con la mano. L’omone gli obbedì come se fosse tirato da un filo. Piantò i piedi con aria bellicosa davanti al vecchio signore e gridò in tono più alto del rombo delle ruote del treno:
”Perché diavolo dovrei parlare con te?” Ora l’ ubriaco mi voltava la schiena. Se il suo gomito si fosse mosso di un solo millimetro, l’avrei fatto appiattire per terra. Il vecchio signore continuava a sorridergli.
“Che cos’ è che hai bevuto” gli chiese con occhi scintillanti di curiosità. “Ho bevuto sakè”,  l’ operaio tuonò come risposta “e non è affar tuo!” Bollicine di saliva spruzzavano il vecchio signore.
“Che meraviglia”, disse il vecchio, “proprio una meraviglia. Anche a me piace tanto il sakè. Ogni sera mia moglie ed io, lei ha settantasei anni, sai, scaldiamo una fiaschetta di sakè, la portiamo in giardino e ci sediamo sopra una vecchia panca di legno. Guardiamo tramontare il sole e come va il nostro albero di kaki. È stato il mio bisnonno a piantarlo e siamo preoccupati perché temiamo sia stato danneggiato dalle tempeste di ghiaccio di quest’ inverno, ma è andato meglio di quanto credessi, se tieni presente la qualità del terreno. È uno spettacolo gratificante vedere quell’albero mentre prendiamo il nostro sakè e  ci godiamo la serata.” Alzò gli occhi scintillanti verso l’ omaccio e lo guardò. La faccia dell’ubriaco cominciò ad addolcirsi, mentre si sforzava di seguire la conversazione del vecchio. Il suo pugno lentamente si sciolse. “Sì”, disse, “anche a  me piacciono i kaki!”. La sua voce si attutì. “Si”, ripetè l’ altro sorridendo, “sono certo che hai anche una magnifica moglie!” “No”, rispose l’ operaio, “mia moglie è morta”. E al ritmo del treno cominciò a  singhiozzare. “Non ho moglie, non ho casa, non ho lavoro, ho vergogna.” Le lacrime gli rotolavano giù per le guance. Uno spasimo disperato gli correva per tutto il corpo. Adesso toccava a  me. Dritto là nella mia giovanile innocenza, ben strigliata, nella mia santa intenzione di instaurare la giustizia democratica nel mondo. Mi sentii improvvisamente più sporco di quello che ero in realtà. Il treno si fermò alla mia stazione e mentre gli sportelli si aprivano, sentii il vecchio signore che emetteva suoni di comprensione. “Santo, santo!”, diceva, “è proprio una brutta situazione. Siediti qui vicino e raccontamela”. Mi voltai per un’ultima occhiata, l’operaio era abbandonato sul sedile e teneva la testa sulle ginocchia dell’altro. Il vecchio accarezzava delicatamente i capelli luridi e annodati. Mentre il treno partiva, mi sedetti sopra una panchina della stazione. Quello che volevo fare con i muscoli era stato ottenuto con parole gentili. Avevo appena visto l’ applicazione dell’ Aikido nella lotta e la sua essenza era l’ Amore.
È interessante ciò che gli disse l’ insegnante:
“Chi vuole la lotta, ha già spezzato il suo rapporto con l’ universo. Se cercate di dominare la gente siete già sconfitti.” Gandhi una volta disse: “Trovate quel potere che è in ciascuno ma non al di sopra di alcuno”, perché c’ è un luogo in ognuno che non è diviso, là sta il potere, là sta il succo. Il trucco è incontrarsi nello spazio dove tutti siamo dotati di potere semplicemente dalla natura del nostro essere.



Aikido and the Harmony of Nature, Shambala, Boston 1993 di M° SAOTOME


Se un bambino che non ha mai assaggiato lo zucchero dovesse chiedere: “Che sapore ha?” , la vostra risposta potrebbe essere:  “dolce?" Come si può spiegare un sapore usando le parole?   Ognuno di noi ha un gusto particolare: le esperienze passate, le conoscenze e la personalità sono tutti fattori determinanti per la reazione di di ogni individuo a un particolare sapore.

BISOGNA PROVARLO DIRETTAMENTE PER COMPRENDERLO APPIENO.

Spesso O-Sensei mi faceva fare le ukemi alla prima lezione del mattino, e qualche volta mi scaraventava a quasi dieci metri di distanza.


Non considerate la mia esperienza attraverso gli occhi offuscati del mistico, ma con la visione chiara e limpida di chi cerca la verità.

L’esperienza, e l’interpretazione che ne do mentre essa cambia e cresce col tempo, è stata ed è tutt’ora così vitale per la mia ricerca che devo cercare di darle voce.

Negli allenamenti, durante la dimostrazione di una tecnica, raccogliendo tutte le mie forze attaccai il maestro e il mio solo pensiero era metterlo a terra. Le pareti del dojo tremavano mentre il suo kiai (un grido penetrante che ha origine dalla parte bassa dell’addome) scuoteva l’aria e tutto il mio corpo era imprigionato dallo shock.
Percepivo la forza di un uragano; i venti violenti di un tifone mi sferzavano il corpo.
E la forza di gravità del maestro, trascinata dalle energie dell’universo nel vuoto di un “buco nero” dal quale non c’era scampo.
Nel profondo del mio essere esplose una bomba e l’intero universo si espanse. Non c’era che luce, una luce accecante e ardente, ed energia. Non vedevo ne’ sentivo il mio corpo, e l’unica realtà era l’enorme energia che da esso si espandeva.
Per chi guardava, tutto accadde in una frazione di secondo, ma per me il tempo si era fermato. Non c’era più tempo, ne’ spazio, ne’ suono, ne’ colore, e il silenzio era più assordante dell’urlo.
Così immerso nella luce, io ero la luce, e la mente e lo spirito erano illuminati e perfettamente limpidi. In quel momento ero privi di sensi. Quando il mio corpo entrò in contatto con la stuoia del tatami, ripresi vita.


 
 
Cerca
Torna ai contenuti | Torna al menu